Quando l’infarto arriva “silenziosamente”
L’infarto miocardico è provocato da un trombo che occlude un’arteria coronarica e causa il mancato apporto di sangue e ossigeno alla regione del cuore da questo irrorata. La conseguenza è la morte di una parte più o meno ampia di muscolo cardiaco, a seconda della grandezza del vaso e della tempestività del trattamento atto a rimuovere l’ostacolo e ripristinare il flusso sanguigno. Per essere efficace, la terapia deve essere rapida, per quanto possibile, mediante la somministrazione di un farmaco che scioglie il trombo o, preferibilmente, con una procedura di angioplastica. Se l’intervento di riperfusione avviene tardivamente o non viene eseguito, le possibilità di limitare il danno necrotico diventano scarse o nulle. Un infarto più esteso si accompagna ad una maggiore probabilità di complicanze gravi, quali lo scompenso cardiaco e le aritmie ventricolari sostenute, fino alla morte improvvisa.
Questo spiega l’importanza del riconoscimento precoce da parte del paziente di quei sintomi che dovrebbero suggerire il ricorso ad un immediata esecuzione di un elettrocardiogramma, esame che riveste un ruolo diagnostico tanto semplice, quanto imprescindibile. Il dolore ischemico è il sintomo che più frequentemente segnala l’inizio della malattia. Esso compare sovente in mezzo al petto, è irradiato all’arto superiore sinistro e/o al collo ed è accompagnato da altri importanti segnali, quali malessere, mancanza di respiro, nausea e sudorazione.
Purtroppo, un numero non trascurabile di infarti si presenta con un dolore del tutto atipico: localizzato in sedi lontane dal torace (talvolta solo al mignolo sinistro), oppure alla bocca dello stomaco (non di rado scambiato per un’indigestione). Altre volte, il paziente non avverte nessun dolore e questa condizione di “infarto silente” diventa ancora più pericolosa, in quanto il danno cardiaco è destinato ad aggravarsi, senza che possa essere attuata alcuna cura efficace. Questa situazione può presentarsi più spesso, ma non esclusivamente, nel soggetto diabetico, la cui neuropatia può ridurre la percezione del segnale doloroso.
Tuttavia, non è affatto raro che, interrogando a fondo il paziente, si possa comunque identificare un’occasione, più o meno remota, nella quale era comparso un malessere al quale non era stato dato un peso adeguato. Da quanto detto finora, appare evidente che un infarto può restare ignorato, anche per sempre, se non viene eseguito un controllo cardiologico successivo: è realistico ritenere che, grosso modo, all’incirca in un quarto dei casi il dolore non venga avvertito dal paziente.
Ma, allora, come diagnosticare un infarto silente?
A volte, il paziente si presenta in Pronto Soccorso per una sintomatologia apparentemente non cardiaca e gli esami di routine (l’elettrocardiogramma in particolare) mostrano un infarto recente o di vecchia data. In altre occasioni, il paziente giunge all’attenzione del Curante o presso l’Ambulatorio Cardiologico, accusando una mancanza di respiro insorta di recente, una stanchezza inusuale, l’incapacità ad eseguire sforzi abituali. Altre volte ancora, la diagnosi d’infarto silente, attuale o pregresso, viene posta in occasione di una visita elettiva, pre-operatoria o assicurativa, quando l’elettrocardiogramma mostra i segni di una necrosi miocardica, antica o anche recente, in fase evolutiva. La conferma diagnostica e una migliore stima del danno cardiaco potrà essere fornita dall’esame ecocardiografico, con l’evidenza di zone di alterata contrattilità a livello delle regioni ischemiche o necrotiche. Infine, se la malattia è insorta entro la settimana precedente, si assisterà anche all’elevazione del tasso di troponina (un enzima rilasciato nel sangue ad opera delle cellule infartuate).
In conclusione, l’infarto miocardico può decorrere, più raramente, senza dolore e per questo è ancora più pericoloso rispetto alla presentazione abituale della malattia.
Il corollario pratico è che, in presenza di un malessere persistente e non ben definito, conviene sempre eseguire un elettrocardiogramma. Se la diagnosi confermerà la patologia infartuale in fase acuta, la terapia di riperfusione coronarica dovrà essere eseguita entro le prime 12 ore dall’esordio.
Nei casi di infarto pregresso, verranno eseguiti gli esami funzionali (in primo luogo, un test da sforzo, associato o meno all’ecocardiografia), preliminari alla coronarografia, allo scopo di valutare la terapia, farmacologica o riperfusiva, di volta in volta più indicata.
Dr Michele Lombardo, Direttore dell’Unità di Cardiologia, Ospedale San Giuseppe – Gruppo MultiMedica