Quali sono le cellule che aiutano a tenere il nostro cuore sano e giovane?
Gli avanzamenti nell’efficacia degli interventi terapeutici degli accidenti cardiovascolari acuti, associati alla tempestività degli stessi, hanno portato ad una riduzione della mortalità per malattie cardiovascolari che si è associata, negli anni, ad un progressivo incremento della numerosità dei pazienti affetti da scompenso cardiaco cronico. Quest’ultimo è una conduzione evolutiva che porta ad un progressivo deterioramento della funzionalità cardiaca, fino a giungere ad una condizione tale da poter essere trattata solamente mediante trapianto di cuore o utilizzo di pompe di assistenza ventricolare meccanica.
Nonostante i miglioramenti terapeutici abbiano portato ad un incremento della sopravvivenza dei pazienti affetti da cardiopatia, la prognosi dei pazienti affetti da scompenso cardiaco terminale rimane estremamente severa. Pertanto, è necessario migliorare le nostre conoscenze nell’ambito della biologia e della fisiopatologia dello scompenso cardiaco, al fine di identificare interventi innovativi e più efficaci.
Agli inizi degli anni 2000, è stata messa in dubbio la concezione statica che il cuore fosse un organo totalmente incapace di sostituire le cellule contrattili perse durante il processo di invecchiamento o in condizioni patologiche. In particolare, si è dimostrato che, per quanto inefficace, un tentativo di rigenerazione avviene anche nell’uomo, in seguito ad infarto acuto del miocardio. Inoltre, studi eleganti, basati sulla datazione mediante Carbonio 14, del DNA dei cardiomiociti (ovvero delle cellule contrattili cardiache), hanno più recentemente dimostrato che, anche nei soggetti sani avviene un ricambio fisiologico di tali cellule. Una volta accettato il cambiamento di paradigma da parte della comunità scientifica, secondo cui cellule contrattili si possono formare anche dopo la nascita, gli scienziati si sono interrogati circa l’origine di tali cellule mature.
A tale proposito, numerose evidenze sperimentali raccolte dai primi anni 2000 ad oggi hanno dimostrato l’esistenza di cellule con caratteristiche staminali residenti nei cuori di mammiferi adulti, uomo compreso. Nonostante numerosi gruppi di ricerca abbiano dimostrato come le cellule progenitrici cardiache siano in grado di generare cardiomiociti in vitro, alcune domande appaiono ancora aperte. In particolare, non si è raggiunto un consenso unanime, da parte della comunità scientifica, su quale sia il ruolo fisiologico di tali cellule nel normale ricambio cellulare o, domanda di maggior rilievo, quale ruolo possano ricoprire le cellule cardiache primitive nella fisiopatologia dello scompenso cardiaco. Ciononostante, alcune evidenze sperimentali indicano in maniera irrefutabile che la terapia cellulare basata sull’utilizzo di progenitori cardiaci ottenute da cuori sani reca beneficio alla funzionalità cardiaca nell’animale da esperimento infartuato. Al contrario, i progenitori cardiaci ottenuti da cuori scompensati risultano essere, in molti casi, inefficaci nel prevenire la perdita di funzionalità cardiaca e l’evoluzione verso lo scompenso.
In aggiunta, diversi laboratori hanno dimostrato che patologie croniche, quali il diabete o lo scompenso cardiaco cronico, sono in grado di alterare la funzionalità dei progenitori cardiaci residenti, rendendoli meno capaci di proliferare e, addirittura, pro-infiammatori. Questa osservazione può essere considerata una prova indiretta dell’importanza del mantenimento di un pool di progenitori cardiaci funzionali per mantenere una corretta omeostasi cardiaca e prevenire lo scompenso. Coerentemente, quando i progenitori cardiaci ottenuti da cuori scompensati sono stati pre-trattati farmacologicamente mediante farmaci capaci di bloccare i processi di invecchiamento cellulare, la capacità pro-rigenerativa di tali cellule è stata ripristinata.
La sfida attuale consiste nel comprendere i meccanismi molecolari che legano l’esposizione ad eventi stressanti cronici alla disfunzione dei progenitori cardiaci per trovare interventi in grado di prevenire ovvero di invertire il fenomeno, in modo da inibire o rallentare la progressione della patologia cardiaca verso lo scompenso cronico.
Con il contributo di:
Prof. Antonio Paolo Beltrami, Università di Udine.
Progetto Cariplo “Isoforme di BPIFB4: possibile fattore di rischio genetico e strumento terapeutico per la fragilità umana.”