Il carcinoma epatocellulare: il ruolo dell’epatologo nella gestione clinica
Il carcinoma epatocellulare (CE) è il più frequente tumore primitivo del fegato ed origina dalla trasformazione neoplastica delle cellule epatiche (epatociti). Benché l’incidenza mondiale del CE sia maggiore in Asia e nei Paesi sub-sahariani, in Europa il primato per il maggior numero di casi spetta all’Italia e ai paesi del bacino del Mediterraneo.
Nel nostro Paese la gran parte di questi tumori insorge in pazienti con una malattia cronica di fegato evoluta in cirrosi causata dall’eccessivo consumo di alcool, da epatiti virali croniche da HBV o HCV, da colangite biliare primitiva, da emocromatosi o da steatoepatite, cioè accumulo di grasso nel fegato con conseguente infiammazione e fibrosi. Negli ultimi anni, inoltre è aumentata l’incidenza di CE in soggetti senza cirrosi ma con la sola steatoepatite. Dal punto di vista morfologico il CE si può manifestare come unifocale, cioè come nodulo neoplastico singolo, multifocale, cioè come due o più noduli sparsi nel parenchima o diffuso, vale a dire come una lesione estesamente infiltrante che tende alla completa sostituzione del fegato e/o con metastasi a distanza. Poiché la fase iniziale di comparsa e crescita del tumore è frequentemente del tutto asintomatica, è spesso difficile fare una diagnosi precoce che deve essere effettuata attraverso lo screening ecografico periodico (ogni 6 mesi) in tutti i pazienti con un’epatopatia cronica avanzata. Solo la precoce identificazione del tumore garantisce infatti un trattamento più efficace ed una miglior prognosi. Purtroppo però molti pazienti sono all’oscuro della loro condizione di epatopatia e non eseguendo periodici controlli clinici ed ecografici, ricevono una diagnosi tardiva della neoplasia.
E qui comincia il duplice fondamentale ruolo dell’epatologo: nei pazienti potenzialmente a rischio, cioè quelli con diagnosi certa di cirrosi o di fibrosi severa, l’epatologo programma sistematicamente esami ematici e ecografia dell’addome superiore e, in una successiva valutazione, identifica precocemente l’eventuale presenza di una lesione sospetta per CE. Nei pazienti senza una diagnosi precisa di malattia del fegato, invece, l’epatologo deve, attraverso un’attenta analisi di esami, ecografia e Fibroscan “stadiare” l’epatopatia, cioè identificare quelli con fibrosi avanzata o cirrosi per avviarli al monitoraggio periodico, proprio perché, come già sottolineato, queste condizioni non si associano a sintomi o segni se non tardivamente, quando possono comparire anoressia, astenia, ittero, ascite, sanguinamento delle varici esofagee ed encefalopatia. Nella diagnosi precoce di tumore del fegato il follow-up con ecografie seriate e valutazione epatologica è fondamentale anche in considerazione del fatto che l’uso dei markers tumorali come l’alfa-fetoproteina (AFP) ha scarso valore predittivo perchè scarsamente sensibile e specifica.
Successivamente, in accordo alle linee guida internazionali, è raccomandato che la diagnosi di CE venga confermata con TC e/o RM con mezzo di contrasto, utili anche per valutare più precisamente l’estensione della malattia. In rari casi, qualora i dati TC e RM non fossero concordanti, può essere dirimente una biopsia della lesione. Una volta arrivati alla diagnosi di CE è fondamentale che la decisione circa i successivi trattamenti sia condivisa dal team multidisciplinare che comprende: epatologo, radiologo, chirurgo, radiologo interventista e oncologo. In base alle caratteristiche del tumore (dimensione, numero, localizzazione e rapporti con le strutture contigue ed eventuale presenza di metastasi) si decidono i trattamenti più appropriati. Anche in questo step, il ruolo dell’epatologo è di primaria importanza perché conosce, rispetto agli altri specialisti, la storia clinica del paziente, in particolare, la sua funzione epatica, il grado di ipertensione portale, il performance status oltre alle eventuali co-morbidità. Le linee guida internazionali infatti selezionano il miglior trattamento del CE sulla base di tutti questi parametri, anche se solo il giudizio clinico e l’esperienza di chi tratta questi pazienti permette di effettuare la scelta più appropriata per ogni singolo paziente. L’epatologo coordina questa valutazione complessiva, non focalizzata quindi solo sulla neoplasia, ma in maniera prioritaria sul paziente e sullo “stato di salute” del fegato. In base a quanto sopra riportato si scelgono le diverse alternative terapeutiche: il trapianto di fegato, la resezione epatica, i trattamenti ablativi e la terapia sistemica.
Il trapianto di fegato consiste nella sostituzione del fegato “malato” con un fegato “sano” di un donatore ed è il trattamento curativo ideale per il CE perché permette di eliminare contemporaneamente il tumore e la malattia epatica sottostante che lo ha provocato. Tuttavia solo una piccola percentuale di pazienti (circa il 5%) con CE su cirrosi è candidabile a trapianto. A causa della limitata disponibilità di organi, infatti, questo trattamento è generalmente riservato ai pazienti con età inferiore a 65 anni, non candidabili ad interventi chirurgici di resezione per la presenza di una severa compromissione della funzione epatica, e tumori di dimensione inferiore ai 5 cm e in numero massimo di 3 noduli. La resezione chirurgica è invece il trattamento di scelta nei pazienti con tumori in stadio iniziale (circa il 20/25%) e discreta riserva funzionale epatica. Nel caso di estese resezioni epatiche nei pazienti cirrotici vi è infatti il rischio che nel post-operatorio si sviluppi insufficienza epatica. Per le lesioni di piccole dimensioni in pazienti con funzionalità epatica compromessa, il trattamento standard è costituito dalla terapia ablativa percutanea con l’impiego di mezzi fisici come la radiofrequenza e le microonde.
Molti pazienti non candidabili alle precedenti terapie possono però essere trattati con la chemio-embolizzazionetransarteriosa (TACE) che consiste nella somministrazione di farmaci chemioterapici all’interno dell’arteria epatica mediante procedure angiografiche. Infine, in caso di tumori molto estesi e/o con metastasi è proponibile la terapia sistemica con farmaci in grado di bloccare la crescita cellulare e la formazione dei vasi sanguigni determinando così la morte delle cellule tumorali. Recentemente è stata approvata dall’Agenzia Europea del Farmaco l’associazione di un farmaco immunoterapico con un antiangiogenico che sembra associata a un’efficacia maggiore e a una migliore qualità di vita rispetto alla terapia standard.
Finalmente oggi ai pazienti con CE possiamo offrire delle effettive chance di trattamento attraverso la gestione multidisciplinare che metta al centro il paziente e consenta di offrire a ciascuno la cura migliore.
Prof.ssa Mariagrazia Rumi – Direttore
Dr. Mauro Viganò – Unità di Epatologia, Ospedale San Giuseppe/ Università degli Studi di Milano