Biomarkers per la Malattia di Alzheimer: dal liquor al sangue
Fino ai primi anni 2000 la diagnosi di Malattia di Alzheimer dipendeva dai sintomi, dall’esame delle funzioni cognitive e dall’esclusione di altre possibili cause di demenza. Una diagnosi definitiva di Malattia di Alzheimer (Alzheimer’s Disease, AD) poteva essere posta solo post-mortem con l’esame autoptico del cervello che permetteva di rilevare la presenza delle placche senili (deposizione di beta-amiloide) e grovigli neurofibrillari intracellulari.
Successivamente, l’immagine strutturale dell’ippocampo mediante Risonanza Magnetica è diventata parte integrante del percorso diagnostico di un paziente con AD. Più recentemente è stata approvata a uso clinico una specifica applicazione della Tomografia ad Emissione di Positroni (PET-PiB) in grado di tracciare la presenza di beta-amiloide nel cervello.
I farmaci attualmente in uso (rivastigmina, donepezil, galantamina, memantina) hanno un effetto solo sintomatico che non sempre viene raggiunto.
Le più recenti sperimentazioni di farmaci contro la Malattia di Alzheimer si sono pertanto concentrate su potenziali farmaci in grado di inibire la beta-secretasi, oppure inibire la gamma-secretasi (gli enzimi che trasformano l’APP, ovvero la proteina precursore dell’amiloide, in una forma tossica di BetaAmiloide), oppure anticorpi monoclonali che si legano alla beta-amiloide per favorirne l’eliminazione per via renale (clearance).
Numerosi di questi studi, in uno dei quali è stata coinvolta anche l’U.O. di Neurologia dell’Ospedale MultiMedica Castellanza, sono arrivati fino alla fase 3 (di cui tutti abbiamo sentito parlare a proposito delle sperimentazioni di vaccini anti-Covid), cioè la fase che coinvolge un largo numero di pazienti.
Purtroppo questi studi hanno quasi tutti fallito nell’identificare un arresto o un sostanziale rallentamento della malattia, ma l’analisi attenta dei dati ha rilevato come l’errore sia costituito dalla scelta di trattare con queste molecole i pazienti già sintomatici, cioè quando il cervello è già in sofferenza per la presenza di placche senili e grovigli neurofibrillari, e la malattia si è già manifestata nel quotidiano.
La strategia vincente sembra essere quella di trattare con questi composti i pazienti prima che sviluppino i sintomi della Malattia di Alzheimer (fase preclinica) oppure in una fase molto precoce della malattia (Mild Cognitive Impairment – MCI, caratterizzato da sintomi lievi ed isolati di memoria).
Ecco quindi che nel prossimo futuro diventa fondamentale individuare dei biomarkers in grado di identificare i pazienti nella fase molto iniziale di malattia o addirittura nella fase di pre-demenza, cioè in persone che abbiano sintomi molto lievi o non abbiano ancora sviluppato sintomi.
Allo stato attuale, le metodiche riconosciute dalle Società Scientifiche americane ed europee quali markers biologici affidabili per i criteri da utilizzare nella diagnosi di AD, nella differenziazione fra AD e MCI e nella predizione di un successivo esordio di AD sono:
- la volumetria dell’ippocampo (tramite Risonanza Magnetica);
- la PET FdG (cioè quell’applicazione della PET che utilizza il tracciante glucosio alla ricerca di un ipometabolismo del cervello, tipicamente nelle regioni posteriori del cervello);
- la PET amiloide (che usa il tracciante chiamato PiB alla ricerca delle placche di BetaAmiloide);
- l’analisi del liquor cefalorachidiano per la ricerca di diminuzione di beta-amiloide42 e l’incremento di proteina tau e tau iperfosforilata.
Tra queste, l’ultima è la metodica più facilmente applicabile e più sostenibile nei costi per il Sistema Sanitario Nazionale.
Il liquido cefalorachidiano (CFS o liquor) è in contatto con lo spazio cerebrale extracellulare e quindi i cambiamenti biochimici nel cervello trovano un riflesso nel CSF stesso.
Un marcato decremento di beta-amiloide42 e un marcato aumento di proteina tau nel liquor sono attualmente usati per diagnosticare la Malattia di Alzheimer, anche se attualmente il parametro più accurato nel differenziarla da altre malattie neurodegenerative (Malattia a corpi di Lewy diffusi, la Demenza Frontale, la Demenza Vascolare) sembra essere il rapporto ridotto fra beta-amiloide42 e beta-amiloide40.
Uno studio su persone affette da forme familiari della Malattia ha indicato che la riduzione di beta-amiloide42 nel liquor inizia circa 25 anni prima dell’esordio dei sintomi, e che l’aumento di proteina tau nel liquor e i depositi di amiloide rilevati da PET PiB possono essere determinati 15 anni prima dell’inizio della malattia.
In conclusione, si può certamente dire che i biomarkers sul liquor sono stati studiati ormai per più di 20 anni e alcuni markers consistenti e solidi sono stati identificati per la diagnosi, la prognosi e in alcuni casi anche per la predizione della Malattia di Alzheimer.
La determinazione su liquor di questi biomarkers aumenta sensibilmente l’accuratezza diagnostica ma non si può pensare di utilizzare una metodica come questa su larga scala sulla popolazione sana, per l’invasività della puntura lombare per prelevare liquor.
Le analisi su sangue ovviamente sarebbero le perfette candidate per uno screening di massa, ma siamo ancora lontani dalla definizione di standard di procedura.
I livelli di beta-amiloide (42 e 40) su liquor hanno dimostrato la consistenza maggiore nel diagnosticare l’AD, sono stati ovviamente studiati anche nel sangue dei malati, ma durante la prima decade degli anni 2000 i risultati in questo senso sono stati deludenti e ancora una volta contraddittori.
La tecnologia biochimica più avanzata dell’ultimo decennio ha consentito di evidenziare alcuni parametri (bassi livelli di beta-amiloide42 e ancor più bassi livelli del rapporto fra beta-amiloide42 e altre forme di beta-amiloide non tossiche), che sembrano poter diagnosticare l’AD in modo sufficientemente accurato.
Anche il dosaggio ematico di proteina tau ha seguito le innovazioni tecnologiche più recenti divenendo via via più sensibile e specifico nella diagnosi di Malattia di Alzheimer.
In ogni caso sembra che la diminuzione di beta-amiloide42 combinata con l’incremento di proteina tau181 sia un pattern tipico della prima fase della malattia.
Sono in corso numerosi studi volti ad analizzare il comportamento di altre proteine, lipidi e metaboliti ematici.
Attualmente non esistono terapie in grado di fermare la progressione della Malattia di Alzheimer, mentre è chiaro che le terapie in grado di prevenire lo sviluppo della malattia (ad esempio gli anticorpi monoclonali) devono essere iniziate nella fase preclinica. È quindi necessario indirizzare la ricerca ad approntare nuovi target per una diagnosi il più precoce possibile di un processo di malattia in corso, magari privilegiando campioni meno invasivi (sangue) o addirittura non invasivi (urine e saliva) in grado di essere utilizzati nella popolazione sana.
È facile pronosticare che i biomarkers ematici costituiranno nei prossimi anni gli oggetti privilegiati di studio per una diagnosi precoce e uno screening di rischio AD.
Dr.ssa Marta Zuffi, Direttore U.O. Neurologia, Ospedale MultiMedica Castellanza
Dr. Armando Gavazzi, U.O. Neurologia, Ospedale MultiMedica Castellanza