Forame ovale pervio: un “buco” nel cuore
Il forame ovale pervio è la più frequente anomalia congenita del cuore. Nell’articolo si cercherà di indicare in cosa consiste, che disturbi può dare e in quali casi sia necessario ricorrere a una terapia.
Per spiegare di cosa si tratta però bisogna conoscere com’è fatto il cuore e come si sviluppa prima della nascita. Pur rinunciando all’idea di fare di ogni lettore un esperto di cardiologia ed embriologia, ricordiamo che il cuore è composto da quattro cavità: atrio destro, ventricolo destro, atrio sinistro e ventricolo sinistro. Le due cavità destre hanno a che fare con il sangue venoso che è poco ossigenato; la cavità sinistre invece ricevono e spingono a tutti gli organi il sangue arterioso ricco di ossigeno.
In condizioni normali, le cavità destre e sinistre sono del tutto separate da una struttura che si chiama setto che impedisce il passaggio di sangue dal sistema cardiaco destro al sinistro e viceversa. La condizione appena descritta è però ben diversa da quanto avviene nel nostro apparato circolatorio prima della nascita. Nel ventre materno il bambino non respira e riceve il sangue ossigenato dalla madre attraverso la vena ombelicale. Per fornire sangue ossigenato a tutti i tessuti, il cuore funziona in modo del tutto diverso e le cavità destre sono in comunicazione con quelle sinistre. Tali comunicazioni, dette ‘forami’ sono destinate a chiudersi solo nei primi mesi di vita come risultato di un nuovo assetto delle pressioni all’interno del cuore una volta sviluppato il respiro spontaneo. È in questa fase che in alcuni soggetti si crea l’anomalia di cui ci occupiamo: la pervietà o, potremo dire, l’incompleta chiusura di una di queste strutture: il setto interatriale. Se prendessimo in considerazione la popolazione generale, si potrebbe stimare che la percentuale di soggetti che presentano la pervietà del forame ovale (FOP) sia del 20-25%. In pratica, una persona su quattro o al massimo su cinque. Da questi numeri appare chiaro che la presenza di un FOP non comporti nella maggioranza dei casi alcun disturbo e che un’enorme moltitudine di persone, che potremo stimare solo in Italia di circa dieci milioni di soggetti, convivano pacificamente con un piccolo spiraglio tra le due cavità atriali, retaggio della loro vita intrauterina.
L’interesse per questa condizione si concretizza quando il FOP diventa responsabile di disturbi neurologici. Il meccanismo con cui si possono avere danni al cervello è il seguente: piccoli trombi che si formano spesso nella circolazione venosa delle gambe o dell’addome di norma finiscono nella circolazione polmonare e lì sono dissolti dall’organismo senza conseguenze. Se però è presente una comunicazione tra i due atri, specialmente durante sforzi fisici o tosse, le piccole particelle trombotiche possono passare nelle cavità cardiache sinistre e di seguito nella circolazione del cervello ostruendone uno o più vasi arteriosi. I danni che ne derivano possono essere permanenti o transitori. I più frequenti sono: difficoltà o impossibilità nel movimento di uno o più arti, difficoltà nel parlare o disturbi visivi. In altri casi invece i danno cerebrali possono essere così piccoli da non dare sintomi e sono diagnosticati solo attraverso esami strumentali quali la TAC o la risonanza magnetica nucleare (RMN).
Sebbene questo sia il meccanismo con cui il FOP possa dare un evento ischemico cerebrale, in realtà nella pratica clinica il percorso di diagnosi è esattamente il contrario: il paziente giunge alla nostra osservazione con un danno cerebrale e noi, come investigatori, dobbiamo trovarne la causa. L’indagine coinvolge vari specialisti: il neurologo, il chirurgo vascolare, l’ematologo e il cardiologo. La possibilità di prevenire un nuovo evento così drammatico dipende infatti dalla nostra capacità di individuarne la causa. Gli accertamenti eseguiti sono: l’eco-color-Doppler delle arterie carotidi, l’ecocardiogramma, l’elettrocardiogramma, esami del sangue per la ricerca di disturbi congeniti della coagulazione. Nel 20-30% dei casi tutti questi esami sono nella norma e le nostre investigazioni si concludono con la diagnosi di ictus criptogenetico, un modo elegante per nascondere la nostra ignoranza e che potrebbe essere tradotto come: ictus di origine sconosciuta. In questi casi, si approfondiscono le indagini per la ricerca del FOP. L’ecocardiogramma tradizionale, eseguito ponendo la sonda sul torace, non è l’esame più accurato per questo tipo di patologia. Per riuscire a ispezionare correttamente il setto tra i due atrii si deve ricorrere all’ecocardiogramma trans-esofageo, eseguito avanzando una sonda nel cavo orale e nell’esofago, con il paziente in sedazione. L’esame è precisissimo nell’identificare la pervietà del FOP e nel descriverne la forma e le dimensioni. Nel corso dell’ecografia è anche possibile iniettare in una vena del braccio una soluzione contenente delle micro bolle per osservare il loro eventuale passaggio dall’atrio destro all’atrio sinistro, simulando il meccanismo prima descritto per il passaggio di piccoli trombi. Se nel paziente che ha subito l’ictus criptogenetico viene riscontrato un forame ovale pervio, non si può essere certi che esso sia il colpevole. Tuttavia, per esclusione di altri elementi, e per un calcolo probabilistico gli si attribuisce la responsabilità. Seguendo la metafora precedente, sarebbe come se gli investigatori incriminassero un soggetto solo perché presente sul luogo del delitto e per l’assenza di altri sospettati.
Nei soggetti con FOP, per evitare che l’ictus possa ripetersi, disponiamo di due armi: la terapia anticoagulante per prevenire la formazione di trombi e la chiusura del forame ovale. Quest’ultimo intervento è di facile esecuzione, non richiede un intervento chirurgico, ma si realizza posizionando due piccoli dischi metallici a cavallo del setto interatriale così da impedire il passaggio di eventuali materiale trombotico. L’intervento si esegue avanzando il dispositivo attraverso la vena di un arto inferiore, tramite un piccolo foro nella cute. Il corretto posizionamento si ottiene controllando tutte le fasi dell’intervento con l’ecocardiogramma trans-esofageo e con una apparecchiatura che emette raggi-X. Per un miglior confort del paziente si esegue con l’assistenza dell’anestesista in sedazione profonda. Il paziente può essere dimesso il giorno successivo al posizionamento del dispositivo di chiusura. La percentuale di successo di questi interventi è superiore al 99% e i rischi sono minimi.
In conclusione, in generale i pazienti portatori di FOP non devono eseguire nessun intervento o terapia particolare. Questa alterazione merita di essere riparata solo quando ritenuta responsabile di danni cerebrali. La scelta del corretto trattamento è il risultato della collaborazione di un team di specialisti tra cui il neurologo e il cardiologo interventista svolgono il ruolo principale.