Diagnosi prenatale: tutto quello che bisogna sapere
Sembra incredibile, ma fino al 1970 per il ginecologo la gravidanza era un mistero, basti pensare che sino ad allora per valutare la sua normale progressione si misurava la distanza del fondo dell’utero dalla sinfisi pubica con un metro da sarto!
Solo agli inizi degli anni ’70 compare, sviluppata dalla tecnica del sonar della Marina Militare, la cardiotocografia: un fascio di ultrasuoni inviato all’interno dell’utero gravido intercetta la pulsazione del cuore rimandando al trasduttore un segnale da cui la macchina deriva la frequenza del battito cardiaco fetale e lo registra su carta correlandolo alle contrazioni uterine derivate da un tocografo. Viene quindi eseguito un tracciato cardiotocografico: se prima o durante la registrazione della contrazione uterina si registra una riduzione della frequenza cardiaca fetale (decelerazione) questo evidenzia un segno di sofferenza fetale con le ovvie conseguenze.
Dopo il 1975, perfezionando la tecnica degli ultrasuoni, si ottiene un’immagine ultrasonografica del feto in utero. Appaiono i primi apparecchi ultrasonografici Bmode. Essi consentono di esplorare le formazioni anatomiche fetali su cui effettuare misure che permettono diagnosi di alterazioni della crescita fetale o di malformazioni. L’utilizzo di apparecchi ultrasonografici sempre più evoluti evoca immagini fetali più definite svelando finalmente i segreti di evoluzione e crescita fetale in utero con studi di fisiopatologia della gravidanza.
Proseguendo con questa carrellata storica, arriviamo al 1985 quando, da un ulteriore perfezionamento degli apparecchi ultrasonografici, compare la flussimetria: derivata da applicazioni ultrasonografiche cardiologiche e angiologiche questa metodica permette lo studio e la misura dei flussi ematici dall’utero alla placenta , dalla placenta al feto e nei vari distretti fetali. Permette inoltre una valutazione accurata della ossigenazione fetale e della ridistribuzione dei flussi ematici nei vari organi fetali nei casi di iposviluppo fetale consentendo di individuare il momento più adatto per la nascita di questi feti iposviluppati senza che ne conseguano handicap postnatali.
Dieci anni più tardi, sempre nell’ambito degli apparecchi ultrasonografici, compare l’ultrasonografia tridimensionale che permette la visione tridimensionale del feto e dei suoi organi. Questa metodica, non ancora completamente sfruttata, permetterà un migliore studio delle malformazioni fetali.
Ma la diagnosi prenatale del feto non deve il suo sviluppo solo agli ultrasuoni. Dal 1975, infatti, grazie alla citogenetica e alle tecniche di prelievo del liquido amniotico già definite all’inizio del secolo, compare l’amniocentesi: prelevando al quarto mese di gravidanza il liquido amniotico in cui sono presenti cellule fetali, a seguito di un procedimento molto complesso (necessita di tre settimane di lavoro) si ottiene la mappa cromosomica fetale con diagnosi di alterazione numerica o morfologia dei cromosomi. Con questa metodica si diagnosticano patologie fetali come le trisomie (la 21 e la sindrome di down) e le anomalie legate ai cromosomi del sesso.
Purtroppo questa diagnosi, da cui spesso deriva la necessità di aborti terapeutici, avviene solo alla diciannovesima settimana. Per ovviare a questo ritardo di diagnosi si è in seguito perfezionata la villocentesi che mediante un prelievo di materiale placentare permette una diagnosi di anomalie cromosomiche fetali più precoce. Questi due procedimenti diagnostici (amniocentesi e villocentesi), essendo “invasivi”, comportano un rischio di abortività non trascurabile con tassi pari al 1-2%.
Per questo, dopo il 2000, è stata perfezionata una nuova tecnica non invasiva: l’ultrascreen. Essa prevede l’incrocio di dati derivanti dallo studio ecografico della translucenza nucale fetale e di dati ematici materni derivati da un semplice prelievo di sangue. Questa metodica non è diagnostica di alterazioni cromosomiche, come l’amniocentesi e la villocentesi, ma esprime un valore di rischio superiore o inferiore a quello previsto in base all’età materna, con una sensibilità non superiore all’80%.
Ma la vera novità di questi ultimi anni è senz’altro la possibilità di trovare nel sangue materno, quindi con tecnica non invasiva, filamenti di DNA fetale. Questo esame che viene perfezionato anno dopo anno permette oggi la valutazione del numero dei cromosomi dell’embrione (trisomie-monosomie) dalla decima settimana di gestazione, da cui dipendono svariate sindromi (Down, ecc). Permette inoltre di valutare le alterazioni submicroscopiche dei cromosomi (microdefezioni) che causano varie patologie neonatali. L’analisi del DNA embrionale diagnostica gravi malattie a trasmissione ereditaria (fibrosi cistica, thalassemia, ecc) o ad insorgenza de novo (acondroplasia, sindrome di Noonan, cranio sinostosi, ecc)
Infine dobbiamo ricordare che un grosso contributo alla diagnosi prenatale del feto è stato dato dagli sviluppi della diagnostica medica in generale e soprattutto il miglioramento delle tecniche diagnostiche di laboratorio. Così è stato possibile affrontare il monitoraggio delle gravidanze affette da dismetabolismo glicidico (diabete gravidico): mediante l’autocontrollo glicidico effettuato dalla gestante al domicilio con i moderni glucometri la gestione di queste gravidanze viene risolta senza estenuanti ospedalizzazioni.
Allo stesso modo è stato possibile ottimizzare la terapia nelle gravide ipertese mediante l’utilizzo al domicilio di holter pressori. Grazie allo sviluppo delle tecniche diagnostiche immunologiche si è resa possibile la gravidanza, e il suo monitoraggio, in pazienti affette da patologie autoimmuni e trombofiliche. Con lo sviluppo di tecniche diagnostiche endocrinologiche molto sofisticate si è affermata la procreazione medica assistita (PMA) che ha permesso la realizzazione della gravidanza in molte coppie sterili.
Lo sviluppo della diagnosi prenatale che abbiamo descritto e i progressi ottenuti nello studio della fisiologia e patologia della gravidanza hanno di fatto molto evoluto l’Ostetricia intesa, come nei tempi antichi, quale scienza che si occupava della nascita. Come è avvenuto che dalla Medicina Interna nel corso degli anni si sono staccate discipline quali la Cardiologia, l’Endocrinologia, I’Immunologia, così anche dall’Ostetricia e Ginecologia nei Paesi più evoluti (Francia e Usa) è nata la Medicina Perinatale. Essa si occupa della cura di gravidanze fisiologiche e patologiche e dei neonati che ne derivano.
In essa si integrano le conoscenze dell’Ostetrico e del Neonatologo, cioè del medico che assiste il neonato nei primi periodi di vita. È proprio da questa nuova simbiosi che nascono migliori programmi di vigilanza gravidica e nuovi studi sul feto a vantaggio della sua futura vita da neonato e da bambino. Ed è proprio per questo che, presso l’Ospedale San Giuseppe di Milano, nell’ambito del Dipartimento Materno Infantile diretto dal prof. Bianchi, da alcuni mesi è stata istituita, tra le prime in Italia, una Divisione dedicata alla Medicina Perinatale.
Emilio Grossi, Responsabile Fisiopatologia della Gravidanza, Ospedale San Giuseppe