Il PSA va dosato o no?
Sono passati più di quarant’anni da quando Richard Ablin, docente di Immunologia alla University of Arizona College of Medicine, ha scoperto il PSA ed oggi, dopo tanto tempo, lo stesso ricercatore pubblica un libro dal titolo: ”La grande mistificazione della prostata”.
A non poche persone, anche al di fuori del campo medico, la cosa non è sfuggita in quanto il dosaggio del suddetto marcatore, da anni, è diventato una routine per tutti i maschi che abbiano superato una certa età, allo scopo di identificare più precocemente un cancro della prostata.
Il grande equivoco è nato dal fatto che, il PSA è stato etichettato come un marcatore di cancro quando, in realtà, un aumento del suo valore può essere indotto anche da vari altri fenomeni che nulla hanno a che fare con la neoplasia.
Tali margini di errore, hanno dato luogo all’incontrollabile incremento di test diagnostici, orientati in tal senso, spesso del tutto inutili, quali l’ecografia trasrettale, o molto fastidiosi e non scevri da rischi, come la biopsia della ghiandola (è causa del 3-4% di ricoveri ospedalieri per le complicanze ad essa dovuta e purtroppo, non di rado, va ripetuta più volte).
Come può essere accaduto allora che tale problematica sia emersa dopo tanto tempo?
Per il semplice fatto che, dagli studi scientifici, è emerso che globalmente la mortalità da cancro della prostata non si è ridotta in maniera proporzionata rispetto alla miriade di provvedimenti terapeutici chirurgici, radioterapici e quant’altro, proposta ai pazienti soprattutto a seguito del riscontro di un dosaggio del PSA alterato.
Come può spiegarsi tale apparente paradosso?
Semplicemente con il fatto che esiste un’enorme sproporzione tra la prevalenza della malattia e la mortalità ad essa correlata. Tra i 60 ed i 70 anni, dati autoptici hanno dimostrato che 65% dei soggetti è portatore di qualche focolaio più o meno voluminoso di carcinoma della prostata. La mortalità dovuta alla malattia si aggira però intorno al 3%.
Cosa significa tutto ciò?
A seguito del dosaggio del suddetto marcatore, al paziente potrebbe essere formulata la diagnosi di una malattia che, con ogni probabilità, non sarà per lui causa di morte, ma che di certo sarà per lui foriera di ovvi stati d’ansia nonché di provvedimenti terapeutici sproporzionati a quella specifica malattia.
Per essere ancora più esplicito, mi permetto di paragonare il concetto generico di”carcinoma della prostata” a quella di “felino”. Una classificazione, basata su tale termine, deve prendere in considerazione tanto il gatto quanto la pantera nera ma è ovvio che, per moltissime ed evidenti caratteristiche, i due animali non possono essere paragonabili così come le varie forme di neoplasia prostatica.
Se è vero che ad aiutarci ci sono anche le caratteristiche istologiche della biopsia, troppo frequentemente il solo termine di “carcinoma” induce nel paziente, non sufficientemente informato, un’ansia tale da fargli richiedere una sollecita e, troppo spesso sproporzionata, soluzione terapeutica. (l’overtreatment degli autori anglosassoni).
Non possono essere altresì sottovalutati gli enormi costi sociali che una politica sanitaria del genere induce, per non parlare della problematica delle complicanze (leggi incontinenza urinaria ed impotenza sessuale) che, con frequenza tutt’altro che trascurabile, conseguono alle varie forme di terapia. Non va sottaciuto che anche le forme di terapia cosiddette “mini invasive”(in primis la chirurgia robotica) non hanno dimostrato di garantire risultati e complicanze radicalmente diverse dai trattamenti tradizionali.
Quanto esposto è per altro confermato dalla Società Europea di Urologia la quale afferma che le attuali evidenze scientifiche non sono sufficienti per raccomandare uno screening di massa, come politica sanitaria pubblica, a causa dei rischi di un eccesso di terapia.
Allo stato attuale, nel nostro Paese, il Servizio Sanitario Nazionale non ha mai formalizzato alcun programma di screening di massa, ma, nella realtà dei fatti, a tutti i maschi, anche avanti con l’età, viene prescritto “per prudenza” dal proprio medico un dosaggio del PSA.
La American Urological Association, invece, suggerisce lo screening per soggetti dai 55 ai 69 anni, che siano adeguatamente informati della limitata riduzione della mortalità: in dieci anni, sopravvive un solo caso in più, su mille soggetti screenati, rispetto a quelli non screenati.
E’ anche vero che, con ogni probabilità, tale minima differenza è destinata ad aumentare quanto più prolungata è la osservazione ma, al momento, non esistono studi sufficienti a dimostrare ciò.
La stessa Associazione, per soggetti di età inferiore a 55 anni, consiglia di personalizzare la decisione anche negli individui a maggior rischio per razza (nera) o familiarità.
Mantenendo i suddetti presupposti, suggerisce di allungare il tempo di osservazione a 2 o più anni che consentirebbero di mantenere i vantaggi dello screening riducendo il rischio di complicanze da biopsia e quelli derivanti da un eccesso di diagnosi (overdiagnosis).
Da ultimo, viene sconsigliato lo screening in soggetti di età superiore ai 70 anni o che comunque abbiano una aspettativa di vita inferiore ai 10-15 anni.
Quali dunque le conclusioni?
Senza arrivare a posizioni estreme quali quelle di Richard Ablin che, nel sottotitolo del suo già citato libro, dice testualmente che “ la grande medicina ha dirottato il ruolo del PSA test causando un disastro della sanità pubblica”ritengo sia doveroso per tutti i medici, specialisti e non, rendere edotto ogni paziente del significato di uno screening, i cui pro e contro debbono essere condivisi con il singolo soggetto.
Pierpaolo Graziotti, Direttore Dipartimento Urologico, Gruppo MultiMedica