Le parole sono farmaci
Le parole sono da sempre il mio strumento di lavoro. Conosco il loro potere. Di sedurre, di persuadere, di convincere, di respingere, di consolare, di irritare; per qualcuno anche di creare il reale, come fece Adamo nel giardino nell’Eden.
Poi mi sono ammalata, di un male che fino a qualche decennio fa non poteva neppure essere nominato tanto era “mortale” il suo nome: cancro. Oggi per fortuna non è più così, molte forme di tumore sono guaribili o curabili., ma quella parola, quando viene pronunciata per te, verso di te, ha ancora l’assoluto, incontestabile potere di terrorizzare. A meno che, insieme ad essa, non ne vengano pronunciate altre di egual potenza, in termini di intensità, ma contrarie per effetto.
Ho potuto sperimentare personalmente l’effetto terapeutico delle parole, non solo a livello psicologico ma anche fisico. Credevo si trattasse solo di suggestione finché non ho letto l’ultimo libro di Fabrizio Benedetti, neurofisiologo e neuroscienziato dell’Università di Torino, tra i massimi esperti internazionali dell’effetto placebo e della sua applicazione nella pratica clinica (ospite nel 2017 ai nostri Mercoledì della Salute). In “La speranza è un farmaco”, attraverso i risultati delle sue ricerche, Benedetti dimostra scientificamente gli effetti fisiologici delle parole e della speranza sui circuiti neurali. Sommariamente, il nostro cervello è dotato di bersagli chimici che possono essere colpiti efficacemente sia dalle parole e dall’interazione sociale, sia da molecole e farmaci.
Le speranze, la fiducia e le aspettative del paziente muovono una miriade di molecole nel cervello e, alla luce delle scoperte fatte, tale componente psicologica usa gli stessi meccanismi dei medicinali. Come? Attraverso due meccanismi: l’aspettativa (la speranza e l’anticipazione di una ricompensa o un evento piacevole riducono il dolore) e l’apprendimento (l’associazione continua tra un fatto – es. visione del medico – e una risposta positiva – es. riduzione dei sintomi con il farmaco – rende la prima sufficiente a generare la seconda anche senza farmaco).
L’effetto è una miglior compliance nella terapia. Non è il solo a sostenere questa tesi. Gli fa eco la Fondazione Giancarlo Quarta Onlus che, a febbraio di quest’anno, in collaborazione con l’università di Udine, Clinica psichiatrica Asuiud Santa Maria della Misericordia., ha presentato l’indagine battezzata ‘Fiore’ (Functional Imaging of Reinforcement Effects), con la quale, sottoponendo a scansione cerebrale 30 persone, hanno “fotografato”, mediante risonanza magnetica funzionale, la presenza di specifiche attivazioni cerebrali correlate alle differenti modalità argomentative e comportamentali rispetto ai due specifici bisogni emotivi del paziente (comprensione emotiva e attenzione). Due aspetti importanti per sentirsi riconosciuto e per superare il senso di spersonalizzazione della malattia.
Oggi, quindi, anche la scienza ci dice che le parole sono frecce potenti che colpiscono precisi bersagli nel cervello e questi bersagli sono gli stessi dei farmaci che la medicina usa nella routine clinica. Ciò significa che la relazione sanitario-paziente è fondamentale per un percorso di cura sempre più personalizzato ed efficace, poiché la modalità di porsi, il rituale terapeutico producono un effetto benefico che va a potenziare quello dei farmaci o, in alcuni casi, può addirittura essere alternativo ad essi.
E se questo è vero, come dimostrerebbero gli studi citati, non possiamo più pensare che un’adeguata relazione terapeutica sia opzionale, possiamo al contrario dire che non applicarla sarebbe come non somministrare un farmaco o non erogare una prestazione clinica.
Alessandra Chiarello – Direttore Marketing e Comunicazione – Gruppo MultiMedica