Maternity Blues. Mamme non si nasce, si diventa.
Non è semplice spiegare quel groviglio di sensazioni emotive e affettive, quasi fisiologiche (ne soffre più della metà delle puerpere), conosciuto con il termine inglese Maternity o Mamy blues. Il messaggio che esprime è importante quanto chiaro; dice esplicitamente: “tranquilla, sono la tristezza tipica delle nuove mamme (anche se al momento credi che i tuoi sentimenti non abbiano nulla di materno)”. Questo termine racchiude una prospettiva positiva per affrontare un disagio che di solito se ne va in un paio di settimane, il tempo necessario all’organismo per tornare ad avere il controllo sui propri livelli ormonali.
Per supportare le neomamme durante questo periodo, è necessario, innanzitutto, trasmettere loro fiducia e sollevarle dallo stato d’ansia, spiegando cosa sta avvenendo al loro corpo e alla loro psiche, che, si sa, sono strettamente correlate. Dopo aver tranquillizzato i novelli genitori in merito alle dinamiche post-partum, è importante capire se dal maternity blues si rischia di cadere in un disturbo più profondo (colpisce circa il 20% delle neomamme) che porta le donne a sentirsi in colpa per non “essere al settimo cielo”, come tutti si aspetterebbero.
Spesso, infatti, chi è vicino alla neomamma non capisce quanto sia radicata in lei la sofferenza e si limita a dire “passerà”. Succede, però, che a passare sia solo il tempo, a volte parecchi mesi. Il rischio allora è che si comprometta qualcosa, sopratutto nella relazione affettiva tra madre e neonato. Al contrario, riconoscere in tempo i sintomi di un disagio diverso, più radicato, equivale ad iniziare a percorrere la strada verso il miglioramento.
Nonostante si stimi che circa una mamma su cinque soffra di depressione post-partum, si tratta di un fenomeno clinico ancora poco riconosciuto. Si pensi, infatti, che questo conteggio non tiene conto che in più del 50% dei casi il disturbo non viene diagnosticato. Il motivo è da ricercarsi in un giudizio condiviso che taccia come innaturale il pensiero che la maternità possa non essere un evento felice. Affinché il disturbo non si aggravi, sarebbe sufficiente che gli specialisti (ginecologi, ostetriche e pediatri), veri osservatori e interlocutori della famiglia dopo il parto, intraprendessero con le coppie un dialogo di informazione e formazione specifica sulla tematica, evidenziando come il maternity blues colpisca fino all’80% delle puerpere e sia un disturbo facilmente superabile.
In questo senso, il punto di forza dell’attività che svolgiamo con le puerpere presso l’Ospedale San Giuseppe è proprio il lavoro di èquipe. Nel nostro ambulatorio psicologico, psicologi, ginecologi, ostetriche e pediatri lavorano sinergicamente per prevenire e riconoscere, per tempo, problematiche psicosomatiche legate ad un disagio emotivo. Così, siamo in grado di offrire un approccio psicoterapico mirato, sia individuale che di coppia, legato all’individuazione delle cause scatenanti e alla comprensione del sintomo, arrivando al miglioramento del disagio affettivo materno.
Tra i primi fattori di rischio da prendere in considerazione ci sono: precedenti episodi di depressione; sintomi ansiosi durante la gravidanza e situazioni poco supportive, nelle quali, cioè, il malessere non viene riconosciuto e la madre avverte attorno a sé un senso di riprovazione. Le conseguenze nel rapporto con il bambino sono immediate. L’assenza psicologica e la tristezza della madre complicano la relazione e aggravano il quadro clinico. “Mi sento di non farcela” o anche “mi sento soffocare dalle responsabilità”: quello che nessuna mum model da copertina ammette è invece un pensiero quasi quotidiano in una mamma comune.
Il problema è anche di ordine socio-culturale. Fino a pochi anni fa, infatti, non era quasi lecito parlare di depressione post-partum e, ancor oggi, la società fa fatica ad ammettere che la donna non sia “istintivamente” madre, che non tutte le mamme riescano ad accettare immediatamente il nuovo ruolo e gli straordinari cambiamenti che l’arrivo di un figlio comporta. Proprio questa pressione sociale aggrava la situazione e richiede alla donna un atteggiamento non spontaneo, portandola ad isolarsi e a chiudersi in sé stessa per paura di un giudizio negativo sulle sue capacità genitoriali.
Nella realtà, il sentimento di inadeguatezza è sempre esistito. Nessuna dovrebbe vergognarsi di aver paura di affrontare un ruolo che potrebbe non appartenerle, tanto meno sentirsi in colpa per non saper rispondere alle aspettative di una società che impone dei canoni piuttosto rigidi al ruolo materno. Paradossalmente, con l’emancipazione della donna, il ruolo della mamma è divenuto ancora più impegnativo: non solo deve saper preparare il brodo vegetale ed essere in grado di risolvere con il sorriso ogni bisogno del neonato, ma anche continuare a fare carriera e mantenersi in forma!
Questa è l’immagine che troppi media diffondono, creando aspettative illusorie sul meraviglioso mondo della maternità, deviandone il significato profondo verso un apparente status sociale fatto solo di spensierate passeggiate nel parco e seggiolini ergonomici, e minimizzando, o volutamente omettendo, l’entità della fatica e del tempo realmente necessario a svolgere i compiti essenziali che un bebè richiede. Il fisico della donna si trasforma con la gravidanza, il parto e il successivo allattamento: inutile pensare di sfoggiare bikini californiani dopo un mese dal cesareo o riuscire a truccare le occhiaie di tre mesi di insonnia. Ci si sente stanche, appesantite, facilmente irritabili. I capelli non saranno lucidi e corposi come nelle pubblicità ed il ritmo delle giornate verrà scandito dall’intervallo tra poppata e poppata, pannolino e sonnellino. Non tentiamo di sorridere davanti al rigurgito indelebile, al pannolino strabordante o all’ennesimo incomprensibile pianto notturno: non sempre sapremo cosa fare, ci sentiremo in gabbia e sopraffatte dalle responsabilità, avremo voglia di piangere e ci sentiremo sole come mai prima.
Non si tratta solo di una questione ormonale, non è una malattia e non è neppure una colpa che dobbiamo addossarci. Fa semplicemente parte dell’evento, è logico e naturale, e per questo non si deve aver paura di chiedere aiuto. Innanzitutto al partner: se il ruolo della donna è cambiato, con impegni sempre meno casalinghi, è necessario che anche il ruolo dell’uomo si assesti in modo da permettere un nuovo equilibrio tra vita sociale e familiare. Una buona interazione e collaborazione fra padre e madre, con complicità e sostegno reciproco ed un’equa ripartizione dei compiti, si riflette positivamente sullo sviluppo sociale ed affettivo del bambino. Per la donna è fondamentale condividere la responsabilità di un figlio, indispensabile per limitare le ansie e sentirsi sostenuta in un percorso denso di momenti importanti. La condivisione genitoriale rappresenta dunque la prima valida soluzione al mamy blues.
Barbara Pucci, Psicologa – U.O Ostetricia e Ginecologia – Ospedale San Giuseppe