La malattia renale cronica: diagnosi ed epidemiologia
La malattia renale cronica (Chronic Kidney Disease, CKD) viene diagnosticata, tramite ecografia o con esami radiologici, quando è presente una riduzione della funzione renale che perdura da più di tre mesi, associata o meno ad alterazioni del sedimento urinario e/o della struttura renale.
L’esame delle urine è utile per il riscontro di eventuali anomalie, tra queste la proteinuria al di sopra del livello di normalità è il più importante sintomo di danno renale. La creatinina plasmatica è il marker biologico della funzione renale, che si misura come filtrato renale (eGFR) espresso in ml/min (millilitri al minuto). Le linee guida nefrologiche internazionali hanno da tempo adottato una classificazione della CKD in 5 stadi, basati sul valore dell’eGFR; nel primo stadio la funzione renale è normale (eGFR ≥ 90 ml/min.) ma sono presenti anomalie urinarie, mentre dal secondo (eGFR da 90 a 60 ml/min.) al quinto stadio (eGFR ≤ 15ml/min.) la funzione renale si riduce progressivamente.
Gli studi sulla diffusione delle malattie nella popolazione mondiale offrono un quadro allarmante sulla prevalenza della malattia renale cronica, presente nel 15-20% delle persone adulte. La situazione sembra essere relativamente migliore in Italia dove uno studio del 2015 ha evidenziato una prevalenza di CKD nel 7% della popolazione adulta.
In questi ultimi anni, nei paesi occidentali, si è registrato un progressivo aumento dei pazienti con CKD dovuto all’incremento nella popolazione delle patologie che più frequentemente si accompagnano ad un danno renale, come il diabete, l’ipertensione e le malattie cardiovascolari. Un’altra importante causa risiede nell’aumento dell’età media e nell’invecchiamento della popolazione. Con l’avanzare dell’età, infatti, vi è già una fisiologica riduzione della funzione renale che può ulteriormente peggiorare quando sono presenti altri fattori di rischio come l’ipertensione, l’obesità e gli elevati livelli di colesterolo.
Nel tempo, il danno renale dei pazienti con CKD può progredire fino a raggiungere lo stadio più avanzato dell’insufficienza renale, definito “stadio uremico”. In questa fase è necessario sostituire la funzione dei reni nativi con la dialisi o con il trapianto renale. Sia la progressione dell’insufficienza renale, che il numero crescente di pazienti affetti da CKD spiegano l’aumento dei pazienti in dialisi cronica e con trapianto renale che oggi raggiunge i 3 milioni di persone nel mondo (circa 60.000 nel nostro Paese).
Nel 2020 uno studio del Global Burden of Disease ha identificato la CKD tra le prime 10 malattie gravate da una prognosi sfavorevole e da un’elevata mortalità. Infatti, i pazienti affetti da CKD negli stadi più avanzati della malattia hanno un tasso di mortalità doppio rispetto alla popolazione generale di pari età, con una perdita di molti anni di aspettativa di vita.
Vi sono oggi moltissime evidenze scientifiche che dimostrano come questi effetti molto negativi siano dovuti soprattutto alle malattie cardiovascolari che si associano all’insufficienza renale cronica.
Ogni forma di malattia cardiovascolare, dall’infarto miocardico alle malattie delle valvole cardiache, dall’ischemia cerebrale alla aterosclerosi periferica, possono svilupparsi o peggiorare quando è presente una CKD e rappresentano la principale causa di decesso nel paziente con uno stadio avanzato di insufficienza renale cronica. Va considerato, però, che anche nelle fasi meno gravi vi è un rischio cardiovascolare aumentato, soprattutto quando è presente una proteinuria al di sopra dei livelli di normalità.
Lo stretto legame tra danno renale e danno cardiaco si osserva in modo particolare nei pazienti con scompenso cardiaco, che rappresenta oggi una delle maggiori cause di ospedalizzazione nel mondo. Per questi casi si è utilizzato il termine di “sindrome cardiorenale” che sta ad indicare la coesistenza dell’insufficienza cardiaca e renale, ma anche, ed è più importante, che in questi pazienti il declino della funzione renale si accompagna ad un peggioramento dell’insufficienza cardiaca e viceversa.
Il rischio cardiovascolare nella CKD è legato alla progressione del danno renale ed all’intervento dei fattori di rischio tradizionali e non tradizionali. I primi sono gli stessi presenti nella popolazione generale e tra essi l’ipertensione ed il diabete, come già evidenziato, giocano un ruolo preponderante, ma anche le alterazioni del quadro lipidico, dovute all’aumento del livello dei trigliceridi ed alla riduzione del colesterolo HDL, sono importanti.
I fattori non tradizionali sono invece prevalenti nei pazienti con CKD e sono rappresentati dalle calcificazioni vascolari e delle valvole cardiache, dalla fibrosi del miocardio e dall’anemia.
Tra i fattori di rischio la proteinuria ha un ruolo particolare perché negli studi clinici si è dimostrata essere associata alla progressione sia del danno renale, che di quello cardiovascolare.
Il controllo dei fattori di rischio rappresenta lo strumento più efficace per migliorare la prognosi dei pazienti con CKD. Ormai da molti anni disponiamo di farmaci, come gli inibitori del RAAS (ACE inibitori e Sartani), molto utili sia nel controllo della pressione che nella riduzione della proteinuria.
Più di recente una nuova classe di farmaci, gli SGLT2 inibitori, si sono rilevati di grande efficacia nella terapia del diabete di tipo 2, riducendo significativamente gli eventi cardiovascolari e lo scompenso cardiaco. Gli stessi farmaci si sono dimostrati molto efficaci nella riduzione della proteinuria e della progressione dell’insufficienza renale nei pazienti con e senza diabete ed offrono per questo grandi prospettive nella terapia della CKD.
Per tutte queste ragioni, considerata la complessità della malattia renale, diviene importantissimo un approccio multidisciplinare che vede coinvolti le figure del nefrologo, del cardiologo e del diabetologo nella cura dei pazienti con malattia renale cronica.
Carlo Maria Guastoni, Direttore U.O. Nefrologia e Dialisi Gruppo MultiMedica