Una proteina dei centenari apre nuove prospettive contro la progeria
Pubblicato su Signal Transduction and Targeted Therapy il nuovo studio condotto dall’IRCCS MultiMedica con l’Università di Bristol
Per la prima volta, uno studio internazionale coordinato dall’IRCCS MultiMedica di Milano e dall’Università di Bristol ha dimostrato che la cosiddetta “proteina della longevità” è in grado di proteggere cuore e fegato dai danni causati dalla sindrome di Hutchinson-Gilford, nota anche come progeria.
Questa rarissima malattia genetica provoca un invecchiamento precoce e porta i pazienti, spesso bambini, a un’aspettativa di vita media di soli 14-15 anni, principalmente a causa delle gravi complicanze cardiovascolari. L’eccezionale caso di Sammy Basso, attivista e divulgatore scientifico, che ha raggiunto i 28 anni, ha contribuito a riportare l’attenzione su questa patologia.
La scoperta: un gene della longevità come “scudo” protettivo
La ricerca, pubblicata sulla rivista Signal Transduction and Targeted Therapy e finanziata dal Medical Research Council (Regno Unito) e dal Ministero della Salute italiano, ha indagato gli effetti della variante genetica LAV-BPIFB4, individuata nel DNA dei centenari e già nota per le sue proprietà protettive sul sistema cardiovascolare.
I risultati hanno mostrato che questa variante può contrastare i danni cardiaci ed epatici della progeria, favorendo persino il recupero del peso corporeo nei modelli animali.
Cos’è la Progeria?
La sindrome di Hutchinson-Gilford è causata da una mutazione del gene LMNA, che porta alla produzione di una proteina tossica chiamata progerina. Questa sostanza danneggia il nucleo delle cellule e accelera i processi di invecchiamento.
Ad oggi, non esistono cure risolutive: l’unico farmaco approvato, il Lonafarnib, agisce riducendo la sintesi e l’accumulo di progerina. Un secondo trattamento, il Progerinin, è in fase di sperimentazione clinica.
Lo studio: dai topi ai fibroblasti umani
Gli esperimenti condotti dall’équipe hanno utilizzato sia modelli animali sia cellule umane di pazienti. Nei topi con progeria, la somministrazione del gene LAV-BPIFB4 tramite terapia genica ha portato a:
- miglioramento della funzione cardiaca e della vascolarizzazione,
- riduzione della fibrosi e dei segni di invecchiamento nei tessuti cardiaci ed epatici,
- recupero del peso corporeo.
Risultati incoraggianti sono emersi anche su cellule umane: nei fibroblasti cutanei di pazienti con progeria, notoriamente caratterizzati da alti livelli di fibrosi e senescenza, l’introduzione della variante protettiva ha ridotto queste anomalie.
Verso nuove strategie terapeutiche
“Si tratta del primo studio che mostra come un gene associato alla longevità possa contrastare i danni cardiovascolari della progeria” – spiega il professor Annibale Puca, Research Group Leader dell’IRCCS MultiMedica e Preside della Facoltà di Medicina dell’Università di Salerno. – “Questi risultati aprono la strada allo sviluppo di nuovi farmaci biologici capaci di migliorare la qualità e l’aspettativa di vita dei pazienti”.
Il professor Paolo Madeddu, professore emerito all’Università di Bristol, sottolinea: “Abbiamo dimostrato che geni con funzioni opposte nell’invecchiamento possono interagire tra loro, attenuandone gli effetti patologici. I geni protettivi dei centenari potrebbero diventare la base per un vero e proprio cocktail terapeutico contro l’invecchiamento precoce”.
Uno sguardo al futuro
I ricercatori stanno ora esplorando strategie alternative alla terapia genica, come l’uso diretto della proteina o di RNA derivati, con l’obiettivo di trasformare questa scoperta in un farmaco innovativo.
Questa ricerca non rappresenta solo un passo avanti nella lotta alla progeria, ma apre scenari più ampi sul ruolo dei geni della longevità come strumenti per contrastare l’invecchiamento e le malattie croniche legate all’età.